15 agosto 1506. 1506-2006 cinque secoli di Montone di Tiziana Barbetti
500 anni fa usciva a Siena, stampato da Simone di Niccolò di Nardo un poema che s’intitolava: La festa che si fece in Siena a dì XV di agosto MDVI scritto da un Anonimo fiorentino in ottave e conservato oggi nella Biblioteca Comunale di Siena. Purtroppo una moderna rilegatura ha tagliato il margine superiore delle pagine e in alcune di esse la riga iniziale. Tale opera fu del tutto trascurata fino alla nuova edizione presentata nel 1993 da Giuliano Catoni e Alessandro Leoncini con il titolo Cacce e tatuaggi.
Fino al XV secolo erano solo quattro le “contrade” di cui si aveva testimonianza: Chiocciola, Drago, Giraffa e Onda. Le 17 come noi le conosciamo le troviamo nella relazione di Cecchino Libraro del 1546, opera che aveva avuto maggiore fortuna rispetto a quella dell’Anonimo fiorentino, ma è proprio grazie a tale poeta che questo anno possiamo festeggiare il cinquecentenario della prima testimonianza scritta, per ora conosciuta, sulla nostra Contrada e su altre sei Consorelle.
Riferendosi a quest’opera del 1506 sarebbe inesatto usare il termine contrada perché mai questo parola è usata dall’autore, troviamo invece “compagnia”, “chacciator”, “brigata”, “stiera”, ma sicuramente quei giovani che entravano in Piazza con macchine zoomorfe erano i nostri avi, coloro che si divertivano nelle attività ludiche come le cacce, le giostre, i giochi e che hanno permesso il perpetuarsi di certe aggregazioni cittadine, in corporazioni, nelle confraternite, nelle associazioni rionali e poi nelle contrade. Difficile è senza dubbio sapere quanto i giochi di un tempo si siano tramandati nel Palio e quanto questo si sia a sua volta differenziato da quegli intrattenimenti. Sicuramente c’è un legame o più sinceramente possiamo ammettere che ci fa piacere pensarlo.
Torniamo al contenuto di questo prezioso poema: l’Anonimo poeta, nella prima ottava, espone l’argomento di cui parlerà: la festa di mezzo agosto fatta a Siena nel 1506 e dedicata alla Madonna. Elenca con precisione e lealtà i nomi del Concistoro senese per il bimestre luglio-agosto 1506, come si evince dal Libro dei Leoni per lo stesso anno, dove troviamo gli stessi nomi citati nell’opera. Continua puntualmente l’elenco con il Capitano del Popolo, il Notaio del Concistoro, i quattro Signori della Festa, i loro aiutanti e il Capocaccia.
Il poeta vi partecipa partendo da Firenze, dopo essersi lamentato di intraprendere da solo il viaggio, trova due accompagnatrici d’eccezione, esse sono la Prudenza e la Poesia che vogliono che metta in versi ciò che vedrà. Preso per mano dalle due, giunse in città entrando da una Porta. Era a Siena il 13 agosto, tutti gli alberghi erano pieni, per la grande quantità di “turisti”. Ogni mercante esponeva merci bellissime portate dall’Oriente, vide stoffe, oro, pietre preziose che lo fecero rimanere senza parole.
La narrazione della vigilia inizia con il racconto del tradizionale pranzo offerto dalla Signoria, nella Sala Grande del Palazzo Comunale, oltre ai notabili erano invitati anche molti semplici cittadini, perché non ci fossero “bisbigli”. Con questo appuntamento iniziava ufficialmente la Festa, dopo tutti si sarebbero recati al Duomo per l’offerta dei Ceri e dei Censi. Elenca i molti piatti serviti e paragona i commensali a tarli per quanto mangiano. Finito il pranzo un grande rumore impaurì l’Anonimo, apparvero cinque carri con ceri ornati che sarebbero stati portati in Duomo. Ceri offerti da Casole, Grosseto, Massa Marittima, Istia d’Ombrone e Montalcino, i cittadini presenti erano contenti, allegri e lieti, così anche il narratore si fece coinvolgere “sangue senese sempre fu discreto”, dopo questa asserzione chiede scusa ai fiorentini suoi concittadini, che non nutrivano simpatia verso i senesi.
Continua a raccontarci dell’offerta dei ceri, poi del Palio che sarà dato in premio al vincitore del torneo, con gli altri palii offerti dalle comunità dello Stato senese. Appresso ai carri con i ceri, trentadue mazzieri seguiti da una numerosa banda che faceva un rumore infinito, dietro i signori della caccia e i loro sedici staffieri. Tutti i figuranti avevano facce contente ed erano ben vestiti, questi ultimi indossavano calze e “giubboni” inquartati di turchino e cremisi, così belli che non restava che ammirarli, poi i Signori della Festa seguiti dal Capocaccia della Signoria. Dopo la donazione dei ceri nel tempio della Madonna, tutti si diressero verso la Piazza dove già si respirava l’aria festosa, con fuochi, tamburi e altri strumenti. Musicisti accompagnavano al Duomo per l’offerta dei ceri le Compagnie dei vari rioni ed elenca quelle dei tre Terzi, di Città, di San Martino e di Camollia; ecco che appaiono San Maurizio e Sant’Angelo a Montone.
Passa poi a narrare il giorno 15 portandoci a conoscenza della cattiva stagione, tanto che convenne rimandare la Festa, forse la Madonna desiderava tutto per sé quel giorno non volendolo condividere con i giochi che distraevano la gente. Il giorno dopo, la domenica, nonostante il brutto tempo fu ordinata la solenne grande caccia. Tornati dal Duomo i Signori della Festa si recarono con gioia nel balcone del Palazzo, così ebbe inizio la sfilata. Prima i carri, di cui già ha parlato, poi saltimbanchi, animali di tutti i tipi, fin quando non si riempì la Piazza.
Usciti quelli sopra descritti, entra per prima la Compagnia dello zoccolo con il capocaccia, “l’alfiere”, i cacciatori tutti vestiti con la divisa gialla e verde e con la bandiera degli stessi colori con su effigiato uno zoccolo d’argento. Poi cacciatori che gridano Drago, anche di questi descrive nei minimi dettagli gli abiti e la bandiera; seguiva un’altra schiera guidata dal Capocaccia poi uno che urlava "Giraffa, Giraffa" con montura “bigia e bianca”, la bandiera è portata da una persona che viene paragonata al guerriero Ettore che con la bandiera salta, balla e corre. Segue una Giraffa vera. Poi l’Istrice con la “liviera” bianca da una parte e bianca e nera dall’altra, entra il Capocaccia e colui che porta la bandiera, segue una macchina a forma d’istrice. Dietro seguivano Etiopi neri come carboni spenti, la loro veste nera con ornamenti oro e gridavano “Viva Nichio, Nichio, Nichio”. L’Anonimo ci dona ancora il nome del Capocaccia come già aveva fatto per le altre Contrade. La bandiera aveva una nicchia bianca priva del suo animale in campo rosso.
Ecco che ci siamo è la prima volta che si parla di noi, manca naturalmente dopo tanta attesa la prima riga di questa ottava, tagliata dalla moderna rilegatura, si legge quindi solo l’ultima parola “Biagio” colui che porta la bandiera è un giovane attivo e molto fiero. Dietro un Montone con la “liviera” bianca dentro a uno scudo d’oro fatto con ingegno e lavoro sottile. Poi il Capitano della Compagnia seguito dai compagni che tengono al guinzaglio dei cani, a dimostrazione che tornano dalla caccia; ecco il nome: Anton Biagio porta la bandiera che effigia una colonna su un ponte, sulla colonna vi era una lupa in oro, e dietro un bel carro a forma di Montone, a vedere ciò la gente si incupì perché quelli del Montone erano “giente da fatti”.
Seguiva Salicotto con “liviera” bianca e nella bandiera vi era effigiato un elefante, un altro elefante, vero, portava un “castellotto”. Dietro una voce gridava ”Viva, viva, viva Chiocciola”. Il Capitano vestiva in nero e bianco a dimostrazione dell’amore per Siena. Stemma della bandiera era una chiocciola marina su fondo bianco e fiamme oro, costui che la portava era incoronato di edera e alloro. Dietro a loro una chiocciola grandissima come una balena. Poi l’Onda, con bandiera fatta a onde, bianca e nera con al centro una lupa dorata, segue la Selva che suona più corni, nella loro bandiera una selva con un cinghiale assalito da un uomo con lo spiedo. Un’altra Compagnia con la divisa nera e gialla, la bandiera tutta gialla con un’aquila nera, a seguire i personaggi un’aquila grandissima con le ali aperte. Per ultimi “giente” che grida “Viva la magna Ocha” con loro un orso che balla, avevano due bandiere dove in ognuna spiccava un’oca, il gruppo dei cacciatori era dotato di archibugi.
Seguivano gli staffieri tutti vestiti con drappi in velluto e raso rifiniti in oro, perle e pietre preziose, dopo di loro venivano le ninfe cacciatrici di Diana. Adornate benissimo, il loro volto sorridente teneva allegro chiunque le vedesse; dopo queste due centauri. Segue un ordigno a forma di vipera con due bocche, una al suo posto davanti e una sul retro, nella coda; dietro a questa un signore vestito con ricchezza, è Alphonso Borghesi, Signore della caccia, montava un cavallo che avrebbe fatto onore a Carlo Magno. Seguono otto staffieri, vestiti in raso giallo e azzurro, che precedono il giovane figlio di Pandolfo Petrucci. Poi entra una bandiera con gli stemmi dei due Alphonso in campo bianco, portata da un grande ingegno quale Lorenzo di Pietro, e con lettere d’oro c’era scritto “Civitas Virgho Vetus Sena (per problemi di rima perché la dicitura esatta sarebbe Sena Vetus Civitas Virginis).
A seguire ottanta balestrieri armati, tutti a cavallo e a guardia del Signore della caccia, quando questo fu in piazza dalla vipera uscirono, per fargli onore, giullari vestiti da viperotti. Usciti di scena i viperotti ecco dal bosco uscire un capriolo, poi un leprotto e una volpe tutti questi animali cacciati dai cani (inizia la venatio, la caccia come nell’antica Roma dove la prima si svolse nel 186 a.C., a modello delle cacciate che si tenevano in Africa), escono poi un tasso, un cinghiale, un istrice, conigli, leprotti, volpi, daini e cervi al suono dei corni ricomincia la caccia. Un cervo corre per tutta la piazza per salvarsi la vita e con un salto oltrepassa la fonte, ancora un altro cervo corre. Esce poi un cinghiale che viene affrontato dai cani, da cui si difende e pare che non curi i loro morsi, corre verso lo steccato urtando le persone per sfuggire alla morte.
Uscirono in successione tre tori, l’ultimo dei quali per volere dei signori della festa doveva essere ucciso non con la lancia ma con la spada. Cinque giovani gli si avvicinano circondandolo, dovevano essere accorti perché il toro era incattivito e più di una volta li fece saltare in aria incornandoli. Non poteva far loro male perché le sue corna erano state spuntate e di questo si compiace l’autore. Il toro aveva tre ferite sul muso, inflittegli dai cacciatori e sarebbe morto se non fosse apparso un bufalo che correva, tanto che le persone dovevano stare attente, ma la piazza voleva che fosse ucciso il toro. Intorno a lui tante spade; morto quel toro si dette poi la caccia al bufalo che fece la stessa fine di chi lo aveva preceduto. Il bufalo morto fu circondato dai carri zoomorfi della Chiocciola, Giraffa, Aquila e Montone, gli uomini cercavano di spartirsi l’animale ma vengono disturbati dall’elefante che voleva per sé l’animale ucciso, così terminò quella mattina la festa.
I cacciatori, a ricordo del poeta furono in tutto più di quattromila, dopo la cacciata la gente va a pranzare e dopo sarebbe tornata in piazza. Per la sera erano stati ordinati fuochi d’artificio, solo a guardare il loro dispiegamento si provava paura. I fuochi erano posti in una macchina che rappresentava il corpo di una donna, cosa non gradita dalle donne senesi, che non videro di buon occhio questa trovata tanto che si allietarono quando, la domenica, pochi furono i fuochi che si accesero per causa della gran pioggia venuta il sabato che aveva bagnato molti di questi strumenti pirotecnici. Le donne asserivano che era stato un castigo del cielo, perché era stata fatta una cosa a lui non gradita. Per finire la Festa in bellezza, si dà inizio a un torneo, ai due migliori giostranti sarà dato in premio un palio di velluto cremisi, ricamato d’oro e foderato di vaio. Le prime sei coppie di cavalieri poco concludono, tanto da non aggiudicarsi il premio.
Il giorno dopo, 17 agosto, vi fu la processione con la reliquia di San Galgano, ancora gente in Piazza per un’altra giostra, tanti i cavalieri ma tra tutti spiccarono un cavaliere Mantovano e un altro di nome Enea che riuscirono a vincere il premio. Si conclude il poema con l’autore, che si scusa con i lettori per ciò che ha tralasciato della festa alla Madonna, perché da mortale quale è non è facile soddisfare l’immacolata e pia Vergine, si vuole salvare dicendo una Ave Maria, e qui finisce.
Un documento a nostro giudizio interessantissimo, basilare nella datazione di quelle entità territoriali che a tutt’oggi esistono, ma una cosa tra le tante ci ha colpito: l’autore usa ben 21 volte la parola Festa, questa è e deve rimanere questa meravigliosa manifestazione; un momento ludico di aggregazione, tra persone che durante tutto l’anno vivono una socialità che altrove è difficile vivere.
Come tutte le cose della vita pensiamo che debba essere presa sul serio, senza però esasperazioni, rivincite personali o lustri individuali. Tante volte prendere le cose sul serio, non corrisponde a prendersi troppo sul serio, tutto deve rimanere nei limiti della giocosità senza che vi vengano trasposte tensioni o insoddisfazioni personali, anzi questa meravigliosa cosa che è il Palio deve infondere serenità, allegria e gioia, nel rispetto dei suoi contenuti, che possono variare a seconda dei bisogni della collettività; cambiamenti che devono essere effettuati senza paura ma con coscienza del ricordo di ciò che è stato e cognizione di cosa sarà.
La corsa del Palio, questa meravigliosa giostra, è solo uno dei tanti appuntamenti a cui la contrada deve adempiere, molti di più dovrebbero essere quelli vissuti al suo interno nell’interscambio generazionale e nell’autocritica che ognuno di noi deve saper fare nei confronti di un sociale che sempre di più sembra svanire. Non crediamo sia retorico ricordare che là dove non c’è Contrada non vi può essere il Palio, mentre il contrario può accadere. Tanto hanno dato queste aggregazioni di persone alla nostra amatissima città, prima di tutto il senso civico, e tanto ancora dovranno dare, quindi auguri di cuore per un futuro che vogliamo, senza illusioni, vedere roseo.